CAMBIAMENTO CLIMATICO KYOTO E COP 21: lo stoccaggio di CO2

Con il protocollo di Kyoto e la Cop 21 di Parigi, si è
ben pensato di abbattere le emissioni di anidride carbonica
per scongiurare il cambiamento climatico attraverso
l’utilizzo di quote di emissione di CO2: a
ogni Stato viene affidato un tetto massimo di quote,
che possono essere vendute o comprate. Lo scambio
a livello mondiale ha permesso di creare un equilibrio:
un Paese a debito è costretto a comprare crediti
di quote, per restare nei limiti prefissati dagli obiettivi
dei protocolli mondiali – attualmente le nazioni inquinatrici
acquistano le quote di emissione dai Paesi
poveri, e si è così creato un mercato borsistico del
carbonio – oppure può investire in nuove tecnologie,
idonee all’abbattimento delle emissioni, tra cui la Carbon
capture storage (CCS), stoccaggi geologici di anidride
carbonica, creando vere e proprie discariche
sotterranee. In pratica la tecnica CCS è fatta tramite
la cattura precombustione o postcombustione delle emissioni
che, successivamente, vengono convogliate
in stoccaggi sotto il suolo.
Ma nei protocolli mondiali non si
parla solamente di CCS; la questione
è più complessa. Lo scambio mondiale
delle quote di CO2 ha creato un
business a tutti gli effetti, comprensivo
di speculazione, con il relativo abbassamento
del prezzo a tonnellata
del carbonio, prezzo attorno al quale
si gioca il fattore cruciale dello scambio
di quote di CO2. Ne consegue che
attualmente le aziende inquinatrici
hanno più convenienza a comprare
quote di CO2 sul mercato, piuttosto
che investire in nuove tecnologie che
permettano la riduzione delle emissioni.
Con la crisi economica e i prezzi
del carbonio bassi, lo stoccaggio è
dunque per il momento accantonato;
ma quando i prezzi risaliranno la pratica
di CCS prenderà sempre più piede,
anche perché con il solo scambio
di quote non si stanno ottenendo i risultati
sperati in termini di abbattimento
di emissioni. I governi europei
e mondiali, inoltre, puntano all’aumento
del prezzo del carbonio e all’investimento
nel CCS storage: stando
ai documenti ufficiali della stessa
Commissione europea, sembra che l’obiettivo
sia di far partire progetti per
il 2020.
C’è poi la questione dei combustibili
fossili, in particolare il metano.
L’uscita dal fossile è lontana e il metano,
anche per la rivoluzione dei gas
non convenzionali, ètimo’ combustibile per produrre energia elettrica, ovviamente
con sostanziali emissioni di anidride carbonica;
per compensare il continuo utilizzo delle fossili
e con l’aumento dei prezzi del carbonio imposto dai
governi, le industrie si lanceranno quindi nel CCS
storage. In prospettiva, lo stoccaggio è dunque funzionale
al continuo utilizzo delle fonti fossili.
Anche il business delle rinnovabili è diventato utile
per le compagnie petrolifere. Nella maggioranza dei
casi, dietro alla produzione di biometano, biocarburanti,
elettricità di biogas, energia elettrica da fonti
rinnovabili, si nasconde la mano lunga di lobby petrolifere
e inquinatrici: producendo energia ‘Green’ a
basso contenuto di CO2, attraverso i certificati verdi
vengono assicurate le quote di CO2 nello scambio
mondiale dei pacchetti di inquinamento.
Attorno allo scambio di emissioni possiamo dunque
parlare di un una sorta di colonialismo 2.0. Di fatto
le lobby comprano interi paesaggi, coltivano per
biocarburanti o per progetti giganteschi di pannelli solari
e creano surplus di energia pulita per compensare
gli squilibri delle emissioni dei Paesi inquinatori; oppure
comprano territori per stoccare CO2, o quote di
emissioni, limitando le economie e l’industrializzazione
dei Paesi poveri. 

E così siamo al paradosso che il
cambiamento climatico è diventato un cavallo di battaglia
degli speculatori e dei petrolieri, e i nuovi paladini
della giustizia ambientale sono proprio i soggetti
che hanno contribuito maggiormente a inquinare e alterare
il clima con il surriscaldamento del pianeta. Sono
infatti le compagnie petrolifere, i produttori di energia
elettrica da fonti fossili e le principali aziende inquinatrici
che, associati in lobby, puntano a risolvere
il problema con studi sullo stoccaggio CCS e sull’opportunità
dello scambio mondiale di quote di emissione.
Diversi analisti ed economisti hanno paragonato
la questione del cambiamento climatico e delle quote
di emissione a un giro d’affari simile
a quello di una nuova rivoluzione industriale,
e anche in Italia non mancano
lobby dai nomi addirittura ambientalisti:
GreenHouse, Co2geonet,
Concawe CCS... e vi collaborano anche
enti di ricerca pubblici italiani,
pur di promuovere studi e rapporti
scientifici. E così troviamo studi dell’INGV
(Istituto nazionale di geofisica),
dell’OGS (Istituto di oceanografia
e geofisica sperimentale di Trieste),
dell’ENEA, dell’RSE, del CNR...
Ci sono anche studi sponsorizzati e
promossi dallo stesso Ministero dello
sviluppo economico, in collaborazione
con la Commissione europea, e addirittura
con il Dipartimento dell’Energia
degli Stati Uniti.
Siamo di fronte a un potente intreccio
tra aziende, multinazionali,
governi, lobby, istituzioni nazionali,
regionali, locali ed enti di ricerca. Il
tutto, ovviamente, senza la minima
trasparenza e il minimo coinvolgimento
delle popolazioni. Sperimentazione
e monitoraggi di fronte a cittadini diventato un ‘ot-
timo’ combustibile per produrre energia elettrica, ovviamente
con sostanziali emissioni di anidride carbonica;
per compensare il continuo utilizzo delle fossili
e con l’aumento dei prezzi del carbonio imposto dai
governi, le industrie si lanceranno quindi nel CCS
storage. In prospettiva, lo stoccaggio è dunque funzionale
al continuo utilizzo delle fonti fossili.
Anche il business delle rinnovabili è diventato utile
per le compagnie petrolifere. Nella maggioranza dei
casi, dietro alla produzione di biometano, biocarburanti,
elettricità di biogas, energia elettrica da fonti
rinnovabili, si nasconde la mano lunga di lobby petrolifere
e inquinatrici: producendo energia ‘Green’ a
basso contenuto di CO2, attraverso i certificati verdi
vengono assicurate le quote di CO2 nello scambio
mondiale dei pacchetti di inquinamento.
Attorno allo scambio di emissioni possiamo dunque
parlare di un una sorta di colonialismo 2.0. Di fatto
le lobby comprano interi paesaggi, coltivano per
biocarburanti o per progetti giganteschi di pannelli solari
e creano surplus di energia pulita per compensare
gli squilibri delle emissioni dei Paesi inquinatori; oppure
comprano territori per stoccare CO2, o quote di
emissioni, limitando le economie e l’industrializzazione
dei Paesi poveri. E così siamo al paradosso che il
cambiamento climatico è diventato un cavallo di battaglia
degli speculatori e dei petrolieri, e i nuovi paladini
della giustizia ambientale sono proprio i soggetti
che hanno contribuito maggiormente a inquinare e alterare
il clima con il surriscaldamento del pianeta. Sono
infatti le compagnie petrolifere, i produttori di energia
elettrica da fonti fossili e le principali aziende inquinatrici
che, associati in lobby, puntano a risolvere
il problema con studi sullo stoccaggio CCS e sull’opportunità
dello scambio mondiale di quote di emissione.
Diversi analisti ed economisti hanno paragonato
la questione del cambiamento climatico e delle quote
di emissione a un giro d’affari simile
a quello di una nuova rivoluzione industriale,
e anche in Italia non mancano
lobby dai nomi addirittura ambientalisti:
GreenHouse, Co2geonet,
Concawe CCS... e vi collaborano anche
enti di ricerca pubblici italiani,
pur di promuovere studi e rapporti
scientifici. E così troviamo studi dell’INGV
(Istituto nazionale di geofisica),
dell’OGS (Istituto di oceanografia
e geofisica sperimentale di Trieste),
dell’ENEA, dell’RSE, del CNR...
Ci sono anche studi sponsorizzati e
promossi dallo stesso Ministero dello
sviluppo economico, in collaborazione
con la Commissione europea, e addirittura
con il Dipartimento dell’Energia
degli Stati Uniti.
Siamo di fronte a un potente intreccio
tra aziende, multinazionali,
governi, lobby, istituzioni nazionali,
regionali, locali ed enti di ricerca. Il
tutto, ovviamente, senza la minima
trasparenza e il minimo coinvolgimento
delle popolazioni. Sperimentazione
e monitoraggi di fronte a cittadini
ignari. E poiché lo stoccaggio CCS è
considerata la soluzione per il futuro,
la sperimentazione aumenterà sempre
più nel prossimo periodo e le istituzioni
si stanno apprestando alla concessione
dei relativi permessi.
Il progetto lombardo
Anche se progetti di stoccaggio geologico
di CO2-CCS in Lombardia e in Italia sono una novità, la possibilità è studiata da
anni.
Il 30 dicembre 2009, la ex giunta regionale capitanata
da Formigoni deliberava il Programma delle
ricerche e sperimentazione in materia di “Cattura e
confinamento dell’anidride carbonica”, nel quale veniva
ricercato un sito idoneo dove poter sviluppare un
impianto pilota di confinamento geologico della CO2.
Le aree indagate risultavano quattro: la zona del pavese,
il lodigiano, Poggio Rusco nel mantovano e il
bacino della Malossa tra la bassa bergamasca e il cremasco.
L’obiettivo della ricerca intendeva individuare
e studiare i siti geologici, misurare gli impatti dell’intervento,
creare come fattore cruciale la “public acceptance”,
ossia l’accettabilità sociale, definire un progetto
pilota e arrivare a un’intesa con il Ministero dello
sviluppo economico.
Non passava molto tempo; già il 22 febbraio 2010
la Regione Lombardia e il Ministero, attraverso il Dipartimento
per l’energia, sottoscrivevano un protocollo
d’intesa nel quale, tra le linee d’azione, venivano promosse
le ricerche per lo sviluppo di nuove tecnologie
per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio di CO2, oltre
a individuare nell’ambito della regione un impianto
pilota da utilizzare in via sperimentale ai fini dello
stoccaggio. Sempre in base all’intesa, si prevedevano
forme di accordo volontario con le imprese inquinatrici,
e collaborazioni con istituti di ricerca e università
per lo sviluppo di interventi tecnologici innovativi.
Il 14 febbraio 2014, la Regione Lombardia concludeva
il rapporto finale “Cattura e stoccaggio geologico
di CO2. Studi e valutazioni per il possibile avvio di un
impianto pilota”.
Il progetto, oltre a una panoramica sulle potenzialità
della cattura e stoccaggio di CO2 a livello internazionale
e anche nell’ambito italiano, fornisce una panoramica
sui principali progetti esistenti e sulle possibili
tecnologie combinate tra stoccaggio geologico e
operazioni minerarie, e si concentra sulla valutazione
potenziale di stoccaggio nel sistema lombardo.
L’area interessata è di circa 1.500 km quadrati, ricadente
su cinque province: Milano, Lodi, Bergamo,
Cremona, Brescia (figura 1, pag. 29).
Quello proposto è uno stoccaggio in
acquifero salino profondo, quindi non
si parla di cavità naturali o giacimenti
depleti come quelli degli stoccaggi
e delle estrazioni di idrocarburi convenzionali;
un acquifero salino è contenuto
nella roccia denominata “conglemerati
di Sergnano (gravel sergnano)”.
Lo studio si è basato principalmente
sui dati dei pozzi di idrocarburi
esistenti, sulle linee sismiche e sui
relativi approfondimenti geologici.
Tutta l’area è stata analizzata, sia per
quanto riguarda la roccia di copertura
(argille del santerno), sia per la profondità
e lo spessore dell’acquifero,
attraverso rielaborazioni tridimensionali
estratte dai profili di pozzo; un
lavoro reso possibile dall’altissima
concentrazione di pozzi metaniferi e
petroliferi in Lombardia, la regione,
assieme all’Emilia Romagna, più bucata
d’Italia. Nello studio sono stati
presi in considerazione anche i titoli
minerari esistenti, dalle coltivazioni
di idrocarburi agli stoccaggi di metano,
e ne sono emerse le zone idonee
e quelle escluse, che corrispondono ai
progetti di stoccaggio metano già esistenti:
l’area di Sergnano, Ripalta Cremasca,
Settala. Idonea e in fase di ulteriore
ricerca è stata ritenuta la zona
del lodigiano.
Lo studio si è spinto anche a simulare
tre possibili iniezioni, utili a
capire l’idoneità del sito e la possibile
tenuta della roccia di copertura. Le
simulazioni hanno eseguito iniezioni
di volumetrie pari a 300.000 t/anno
per un arco temporale di trent’anni, e hanno concluso l’idoneità dell’area per lo sviluppo di
un impianto pilota per lo stoccaggio di CO2, sia per
la possibile roccia di copertura che ha uno spessore
variabile dai 500 ai 2.500 metri, sia per il possibile
giacimento che avrebbe uno spessore da pochi metri
fino a 600.

Le simulazioni effettuate sono in linea con il progetto
presentato dalla Techint, che prevedeva la cattura
della CO2 presso la centrale a ciclo combinato da
110 Mw presente nello stabilimento siderurgico di
Dalmine (BG), e lo stoccaggio in acquifero salino. È
interessante come questo vecchio studio della Techint
prevedesse la possibilità di stoccare una quantità pari
a 370/380 milioni di tonnellate di CO2, dato fornito
attraverso un’analisi statica precedentemente eseguita
e basata sulla metodologia suggerita
dal Department of Energy (DOE) americano;
un volume che equivarrebbe
alla quantità di emissioni prodotte
dalle principali aziende inquinatrici
della Lombardia in un arco temporale
di trent’anni.
Perché stoccare CO2 nel sottosuolo
La pratica del CCS è studiata da diversi
anni, ma è ancora in fase sperimentale.
Non si può nascondere che
gli impianti esistenti non hanno ancora
dimostrato un’effettiva sicurezza,
tanto che il dibattito scientifico è sismicità
indotta e innescata (ne parleremo nel prossimo articolo),
la contaminazione delle falde acquifere e la
possibile fuoriuscita in atmosfera della CO2 da fughe
preferenziali, per la cattiva tenuta delle rocce geologiche
di copertura – e le emissioni, in grandi quantità
sono molto pericolose perché asfissianti. Per questo
deve essere ricordato il caso del lago vulcanico Nyos
in Camerun nel 1986, con la morte nel sonno di 1.700
persone e 3.500 capi di bestiame, proprio per l’emissione
dovuta a una fuoriuscita naturale di CO2 disciolta
nelle acque.
Nonostante i rischi, vogliono stoccare; perché?
La relazione finale prodotta dalla Regione Lombardia
contiene alcune risposte. Dichiara che l’attuale
stoccaggio CCS non è attualmente redditizio e conveniente
se non attraverso l’utilizzo combinato con altri
tipi di tecnologie. Viene per esempio proposta la combinazione
con l’estrazione di idrocarburi, la tecnica
denominata CO2 EOR (Carbon dioxide Enhanced oil
recovery, Recupero assistito di greggio tramite l’iniezione
di CO2) (figura 2, pag. 31). In pratica, spingendo
la CO2 nei giacimenti si possono estrarre quantità
non trascurabili di idrocarburi, che con il metodo tradizionale
non sarebbe possibile; di fatto, si vuole raschiare
il fondo del ‘barile’.
Oppure si propone l’utilizzo della CO2 come cushion
gas negli stoccaggi di metano. Il cushion gas è
quella quantità di metano utilizzato e non movimentato
commercialmente necessario per la movimentazione
del gas stoccato e commercializzato (working
gas); in pratica serve per dare la pressione necessaria
per l’estrazione e l’iniezione. Sostituendo il cushion
gas con la CO2 si potrebbero recuperare quantità notevoli
di metano da vendere, con un bel profitto per le
aziende di stoccaggio.
Un’altra tecnica ipotizzata è la Enhanced Coal Bed
Methane (Recupero di metano da strati carboniferi),
che consiste nell’iniettare CO2 negli strati geologici
carboniferi, in modo da liberare il metano presente
negli interstizi delle rocce carbonatiche. È un metodo
molto invasivo e tipico delle operazioni da fracking;
proposto per il bacino carbonifero del
Sulcis in Sardegna, non è da escludere
il suo utilizzo in determinati bacini
geologici carboniferi, come quello della
Malossa in Lombardia – bacino su
cui si basa il progetto della Regione
– e in altre aree lombarde, come Lacchiarella
e Zibido San Giacomo nel
sud milanese, dove sono in corso trivellazioni
per la ricerca di idrocarburi
proprio in conformazioni carbonatiche
a 4.000 metri di profondità.
Il progetto lombardo di CCS, in
riferimento allo stoccaggio CO2 associato
a tecniche EOR, riporta: “[...]
si stima che durante gli ultimi 40 anni
siano state iniettate nel sottosuolo
circa 1 milione di tonnellate di CO2
con lo scopo di migliorare il recupero
di olio greggio dai giacimenti (recupero
migliorato del petrolio tramite
iniezione di CO2, CO2 EOR). Alla
luce di questo dato, la tecnica CO2
Eor è sempre più considerata una tecnica
per progredire nello sviluppo di
grandi progetti di stoccaggio della
CO2, visti i vantaggi commerciali rispetto
alle tecniche CCS tradizionali
e dedicate al solo stoccaggio della medesima
[...] la maggior parte delle
compagnie petrolifere che sviluppano
e gestiscono tali progetti non hanno
mai avuto come obiettivo l’aumento
della capacità di stoccaggio CO2 che
offrono i loro progetti, poiché oggi
non vi è una spinta normativa o finanziaria
che consideri la componente
stoccaggio come parte integrante e
remunerativa dell’attività”.
È chiaro il tentativo di inserire fin
da subito possibili incentivi finanziari
e normativi. Continua infatti il do-
cumento: “[...] al fine di rendere l’attività di stoccaggio
una parte industriale e remunerativa dell’attività
CO2 EOR, pare quindi necessario implementare forme
di incentivazione (prezzi, tassazione, normativa
ecc..). [...] al momento, le attività CO2 EOR giocano
(e giocheranno sempre più) un ruolo fondamentale
nel campo delle tecniche CCS applicate a scala commerciale,
che spesso giustificano un parziale bilancio
dei costi per lo sviluppo degli impianti di cattura.
Ciononostante, è necessario sviluppare uno scenario
gestionale affidabile (anche politico e di accettabilità
sociale), relativo a norme legislative, di controllo e
sicurezza, che fornisca incentivi a investire nelle tecniche
CCS includendo anche un necessario sviluppo
di siti dedicati al solo stoccaggio di
CO2. [...] Infatti, i soli giacimenti in
via di esaurimento (sia di greggio, sia
di gas naturale), non possiedono la
capacità di stoccaggio necessaria a
poter contribuire significativamente
all’abbattimento delle emissioni di
CO2 a lungo termine tramite l’applicazione
delle tecniche CCS [...] La
potenzialità di stoccaggio in giacimenti
di olio potrebbe aumentare prendendo
in considerazione parti del giacimento
di solito non considerate negli
scenari di progetto della CO2 EOR. Infatti, nelle zone basali del giacimento spesso è presente
una zona di transizione tra acqua e olio (frangia
capillare, caratterizzata da una saturazione in olio residua),
di solito valutata non economica ai fini dell’EOR.
Questa parte del giacimento potrebbe essere
riconsiderata ai fini di aumentare la capacità di stoccaggio,
sia di un possibile recupero addizionale di
greggio, in questo momento non considerato economico
[...] inoltre, spesso vi sono acquiferi salini posti
a fianco, sopra o sotto le formazioni produttive a olio,
ma il loro utilizzo è generalmente precluso a causa di
normative (proprietà del sottosuolo) o dalla mancanza
di benefici economici. Se, dopo attenta valutazione,
tali acquiferi fossero ritenuti idonei per lo stoccaggio
‘dedicato’ della CO2, essi potrebbero essere
utilizzati in modo più conveniente degli stoccaggi ‘dedicati’
tradizionali, potendo avvalersi a costo ridotto
delle infrastrutture esistenti messe in opera per l’implementazione
del processo CO2 EOR”.
Quanto l’obiettivo prefissato sia dietro spinta delle
lobby, è chiaro: si andranno a creare incentivi e normative
idonee per queste opere, compreso il rischio
concreto di una privatizzazione del sottosuolo, dopodiché
ci si occuperà anche di creare l’accettabilità sociale
nei confronti di questi progetti.
Il problema dell’accettabilità sociale
Un aspetto, quello dell’accettabilità sociale, per nulla
da sottovalutare, oggetto di progetti di ricerca appositi
e di seminari tenuti negli stessi convegni per la promozione
degli stoccaggi di CO2. È il caso del convegno
“Next Generation Energy storage Technologies:
challenges and opportunities”, tenuto a Taormina il 2-
3 dicembre 2015 e organizzato da Science and Technology
Foresight Project del CNR italiano (Centro
nazionale della ricerca); e del progetto di ricerca “Public
Acceptance e attività di supporto alla regolamentazione
delle attività di sequestro geologico della
CO2” del Cesi Ricerca, del febbraio 2008.
Il Cesi Ricerca, ora Ricerca sul Sistema Energetico
s.p.a., è controllato dal Gestore dei servizi energetici
GSE s.pa. – guarda caso l’azienda che gestisce lo
scambio di quote di emissioni italiane
– oltre a essere una società
per azioni controllata al 100% dal
Ministero dell’economia e delle finanze.
In questo progetto è spiegato quanto
siano fondamentali gli stakeholder
(dalle autorità locali e regionali a istituzioni
governative operanti nel settore
energetico, ambientale, sociale,
dell’istruzione, sanitario; dalle industrie
coinvolte nell’ambito della CCS
alle associazioni ambientalistiche e
gli istituti di ricerca) per pubblicizzare
la pratica di CCS, e quanto essi
debbano essere rappresentativi delle
diverse posizioni esistenti riguardo
allo stoccaggio di CO2. L’accettabilità
sociale, infatti, è sottolineato nel
documento, si può ottenere solo se i
cittadini credono che la tecnica CCS
sia una fase di passaggio che porterà
all’adozione di tecnologie alternative,
come le fonti energetiche rinnovabili,
e non qualcosa che alimenta
l’industria dei combustibili fossili. E
quindi bisogna operare su più fronti,
agire attraverso i mezzi d’informazione
di massa come fare interventi
mirati sul territorio, adattando la propaganda
al target a cui di volta in
volta ci si rivolge. Di basilare importanza
è il settore scolastico, dalla
scuola primaria all’università, che deve
essere oggetto di un ben costruito
programma d’educazione ambientale,
strutturato attraverso lezioni, incontri
e dibattiti, nei quali la CSS
deve essere presentata come una possibilità
per contrastare l’effetto serra,
perché mostrarne solo la bilancia rischi/benefici,
evidenzia il documento,
potrebbe risultare fuorviante se non controproducente.
Siamo quindi davanti a un’operazione di propaganda
ben programmata, per manipolare l’opinione
pubblica e fare accettare la pratica CSS. Occorre dunque
riconsiderare tutti i progetti energetici sotto una
nuova luce, e la questione del cambiamento climatico
e dello stoccaggio di CO2 ne sono al centro. La battaglia
contro la privatizzazione del sottosuolo e per la
sua difesa come bene comune è necessaria e fondamentale
fin da subito.


Fonte: Inchiesta Paginauno di Enrico Duranti

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