CAMBIAMENTO CLIMATICO KYOTO E COP 21: lo stoccaggio di CO2
Con il protocollo di
Kyoto e la Cop 21 di Parigi, si è
ben pensato di
abbattere le emissioni di anidride carbonica
per scongiurare il
cambiamento climatico attraverso
l’utilizzo di quote
di emissione di CO2: a
ogni Stato viene
affidato un tetto massimo di quote,
che possono essere
vendute o comprate. Lo scambio
a livello mondiale ha
permesso di creare un equilibrio:
un Paese a debito è
costretto a comprare crediti
di quote, per restare
nei limiti prefissati dagli obiettivi
dei protocolli
mondiali – attualmente le nazioni inquinatrici
acquistano le quote
di emissione dai Paesi
poveri, e si è così
creato un mercato borsistico del
carbonio – oppure può
investire in nuove tecnologie,
idonee
all’abbattimento delle emissioni, tra cui la Carbon
capture storage (CCS),
stoccaggi geologici di anidride
carbonica, creando
vere e proprie discariche
sotterranee. In
pratica la tecnica CCS è fatta tramite
la cattura
precombustione o postcombustione delle emissioni
che, successivamente,
vengono convogliate
in stoccaggi sotto il
suolo.
Ma nei protocolli
mondiali non si
parla solamente di
CCS; la questione
è più complessa. Lo
scambio mondiale
delle quote di CO2 ha
creato un
business a tutti gli
effetti, comprensivo
di speculazione, con
il relativo abbassamento
del prezzo a tonnellata
del carbonio, prezzo
attorno al quale
si gioca il fattore
cruciale dello scambio
di quote di CO2. Ne
consegue che
attualmente le
aziende inquinatrici
hanno più convenienza
a comprare
quote di CO2 sul
mercato, piuttosto
che investire in
nuove tecnologie che
permettano la
riduzione delle emissioni.
Con la crisi
economica e i prezzi
del carbonio bassi,
lo stoccaggio è
dunque per il momento
accantonato;
ma quando i prezzi
risaliranno la pratica
di CCS prenderà
sempre più piede,
anche perché con il
solo scambio
di quote non si
stanno ottenendo i risultati
sperati in termini di
abbattimento
di emissioni. I
governi europei
e mondiali, inoltre,
puntano all’aumento
del prezzo del
carbonio e all’investimento
nel CCS storage:
stando
ai documenti
ufficiali della stessa
Commissione europea,
sembra che l’obiettivo
sia di far partire
progetti per
il 2020.
C’è poi la questione
dei combustibili
fossili, in
particolare il metano.
L’uscita dal fossile
è lontana e il metano,
anche per la
rivoluzione dei gas
non convenzionali,
ètimo’ combustibile per produrre energia elettrica, ovviamente
con sostanziali
emissioni di anidride carbonica;
per compensare il
continuo utilizzo delle fossili
e con l’aumento dei
prezzi del carbonio imposto dai
governi, le industrie
si lanceranno quindi nel CCS
storage. In
prospettiva, lo stoccaggio è dunque funzionale
al continuo utilizzo
delle fonti fossili.
Anche il business
delle rinnovabili è diventato utile
per le compagnie
petrolifere. Nella maggioranza dei
casi, dietro alla
produzione di biometano, biocarburanti,
elettricità di
biogas, energia elettrica da fonti
rinnovabili, si
nasconde la mano lunga di lobby petrolifere
e inquinatrici:
producendo energia ‘Green’ a
basso contenuto di
CO2, attraverso i certificati verdi
vengono assicurate le
quote di CO2 nello scambio
mondiale dei
pacchetti di inquinamento.
Attorno allo scambio
di emissioni possiamo dunque
parlare di un una
sorta di colonialismo 2.0. Di fatto
le lobby comprano
interi paesaggi, coltivano per
biocarburanti o per
progetti giganteschi di pannelli solari
e creano surplus di
energia pulita per compensare
gli squilibri delle
emissioni dei Paesi inquinatori; oppure
comprano territori
per stoccare CO2, o quote di
emissioni, limitando
le economie e l’industrializzazione
dei Paesi poveri.
E
così siamo al paradosso che il
cambiamento climatico
è diventato un cavallo di battaglia
degli speculatori e
dei petrolieri, e i nuovi paladini
della giustizia
ambientale sono proprio i soggetti
che hanno contribuito
maggiormente a inquinare e alterare
il clima con il
surriscaldamento del pianeta. Sono
infatti le compagnie
petrolifere, i produttori di energia
elettrica da fonti
fossili e le principali aziende inquinatrici
che, associati in
lobby, puntano a risolvere
il problema con studi
sullo stoccaggio CCS e sull’opportunità
dello scambio
mondiale di quote di emissione.
Diversi analisti ed
economisti hanno paragonato
la questione del
cambiamento climatico e delle quote
di emissione a un
giro d’affari simile
a quello di una nuova
rivoluzione industriale,
e anche in Italia non
mancano
lobby dai nomi
addirittura ambientalisti:
GreenHouse,
Co2geonet,
Concawe CCS... e vi
collaborano anche
enti di ricerca
pubblici italiani,
pur di promuovere
studi e rapporti
scientifici. E così
troviamo studi dell’INGV
(Istituto nazionale
di geofisica),
dell’OGS (Istituto di
oceanografia
e geofisica
sperimentale di Trieste),
dell’ENEA, dell’RSE,
del CNR...
Ci sono anche studi
sponsorizzati e
promossi dallo stesso
Ministero dello
sviluppo economico,
in collaborazione
con la Commissione
europea, e addirittura
con il Dipartimento
dell’Energia
degli Stati Uniti.
Siamo di fronte a un
potente intreccio
tra aziende,
multinazionali,
governi, lobby,
istituzioni nazionali,
regionali, locali ed
enti di ricerca. Il
tutto, ovviamente,
senza la minima
trasparenza e il
minimo coinvolgimento
delle popolazioni.
Sperimentazione
e monitoraggi di fronte a cittadini diventato un ‘ot-
timo’ combustibile per produrre energia elettrica, ovviamente
timo’ combustibile per produrre energia elettrica, ovviamente
con sostanziali
emissioni di anidride carbonica;
per compensare il
continuo utilizzo delle fossili
e con l’aumento dei
prezzi del carbonio imposto dai
governi, le industrie
si lanceranno quindi nel CCS
storage. In
prospettiva, lo stoccaggio è dunque funzionale
al continuo utilizzo
delle fonti fossili.
Anche il business
delle rinnovabili è diventato utile
per le compagnie
petrolifere. Nella maggioranza dei
casi, dietro alla
produzione di biometano, biocarburanti,
elettricità di
biogas, energia elettrica da fonti
rinnovabili, si
nasconde la mano lunga di lobby petrolifere
e inquinatrici:
producendo energia ‘Green’ a
basso contenuto di
CO2, attraverso i certificati verdi
vengono assicurate le
quote di CO2 nello scambio
mondiale dei
pacchetti di inquinamento.
Attorno allo scambio
di emissioni possiamo dunque
parlare di un una
sorta di colonialismo 2.0. Di fatto
le lobby comprano
interi paesaggi, coltivano per
biocarburanti o per
progetti giganteschi di pannelli solari
e creano surplus di
energia pulita per compensare
gli squilibri delle
emissioni dei Paesi inquinatori; oppure
comprano territori
per stoccare CO2, o quote di
emissioni, limitando
le economie e l’industrializzazione
dei Paesi poveri. E
così siamo al paradosso che il
cambiamento climatico
è diventato un cavallo di battaglia
degli speculatori e
dei petrolieri, e i nuovi paladini
della giustizia
ambientale sono proprio i soggetti
che hanno contribuito
maggiormente a inquinare e alterare
il clima con il
surriscaldamento del pianeta. Sono
infatti le compagnie
petrolifere, i produttori di energia
elettrica da fonti
fossili e le principali aziende inquinatrici
che, associati in
lobby, puntano a risolvere
il problema con studi
sullo stoccaggio CCS e sull’opportunità
dello scambio
mondiale di quote di emissione.
Diversi analisti ed
economisti hanno paragonato
la questione del
cambiamento climatico e delle quote
di emissione a un
giro d’affari simile
a quello di una nuova
rivoluzione industriale,
e anche in Italia non
mancano
lobby dai nomi
addirittura ambientalisti:
GreenHouse,
Co2geonet,
Concawe CCS... e vi
collaborano anche
enti di ricerca
pubblici italiani,
pur di promuovere
studi e rapporti
scientifici. E così
troviamo studi dell’INGV
(Istituto nazionale
di geofisica),
dell’OGS (Istituto di
oceanografia
e geofisica
sperimentale di Trieste),
dell’ENEA, dell’RSE,
del CNR...
Ci sono anche studi
sponsorizzati e
promossi dallo stesso
Ministero dello
sviluppo economico,
in collaborazione
con la Commissione
europea, e addirittura
con il Dipartimento
dell’Energia
degli Stati Uniti.
Siamo di fronte a un
potente intreccio
tra aziende,
multinazionali,
governi, lobby,
istituzioni nazionali,
regionali, locali ed
enti di ricerca. Il
tutto, ovviamente,
senza la minima
trasparenza e il
minimo coinvolgimento
delle popolazioni. Sperimentazione
e monitoraggi di
fronte a cittadini
ignari. E poiché lo stoccaggio CCS è
ignari. E poiché lo stoccaggio CCS è
considerata la
soluzione per il futuro,
la sperimentazione
aumenterà sempre
più nel prossimo
periodo e le istituzioni
si stanno apprestando
alla concessione
dei relativi
permessi.
Il
progetto lombardo
Anche se progetti di
stoccaggio geologico
di CO2-CCS in
Lombardia e in Italia sono una novità, la possibilità è studiata da
anni.
Il 30 dicembre 2009,
la ex giunta regionale capitanata
da Formigoni
deliberava il Programma delle
ricerche e
sperimentazione in materia di “Cattura e
confinamento
dell’anidride carbonica”, nel quale veniva
ricercato un sito
idoneo dove poter sviluppare un
impianto pilota di
confinamento geologico della CO2.
Le aree indagate
risultavano quattro: la zona del pavese,
il lodigiano, Poggio
Rusco nel mantovano e il
bacino della Malossa
tra la bassa bergamasca e il cremasco.
L’obiettivo della
ricerca intendeva individuare
e studiare i siti
geologici, misurare gli impatti dell’intervento,
creare come fattore
cruciale la “public acceptance”,
ossia l’accettabilità
sociale, definire un progetto
pilota e arrivare a
un’intesa con il Ministero dello
sviluppo economico.
Non passava molto
tempo; già il 22 febbraio 2010
la Regione Lombardia
e il Ministero, attraverso il Dipartimento
per l’energia,
sottoscrivevano un protocollo
d’intesa nel quale,
tra le linee d’azione, venivano promosse
le ricerche per lo
sviluppo di nuove tecnologie
per la cattura, il
trasporto e lo stoccaggio di CO2, oltre
a individuare
nell’ambito della regione un impianto
pilota da utilizzare
in via sperimentale ai fini dello
stoccaggio. Sempre in
base all’intesa, si prevedevano
forme di accordo
volontario con le imprese inquinatrici,
e collaborazioni con
istituti di ricerca e università
per lo sviluppo di
interventi tecnologici innovativi.
Il 14 febbraio 2014,
la Regione Lombardia concludeva
il rapporto finale
“Cattura e stoccaggio geologico
di CO2. Studi e
valutazioni per il possibile avvio di un
impianto pilota”.
Il progetto, oltre a
una panoramica sulle potenzialità
della cattura e
stoccaggio di CO2 a livello internazionale
e anche nell’ambito
italiano, fornisce una panoramica
sui principali
progetti esistenti e sulle possibili
tecnologie combinate
tra stoccaggio geologico e
operazioni minerarie,
e si concentra sulla valutazione
potenziale di
stoccaggio nel sistema lombardo.
L’area interessata è
di circa 1.500 km quadrati, ricadente
su cinque province:
Milano, Lodi, Bergamo,
Cremona, Brescia
(figura 1, pag. 29).
Quello proposto è uno
stoccaggio in
acquifero salino
profondo, quindi non
si parla di cavità
naturali o giacimenti
depleti come quelli
degli stoccaggi
e delle estrazioni di
idrocarburi convenzionali;
un acquifero salino è
contenuto
nella roccia
denominata “conglemerati
di Sergnano (gravel
sergnano)”.
Lo studio si è basato
principalmente
sui dati dei pozzi di
idrocarburi
esistenti, sulle
linee sismiche e sui
relativi
approfondimenti geologici.
Tutta l’area è stata
analizzata, sia per
quanto riguarda la
roccia di copertura
(argille del
santerno), sia per la profondità
e lo spessore
dell’acquifero,
attraverso
rielaborazioni tridimensionali
estratte dai profili
di pozzo; un
lavoro reso possibile
dall’altissima
concentrazione di
pozzi metaniferi e
petroliferi in
Lombardia, la regione,
assieme all’Emilia
Romagna, più bucata
d’Italia. Nello
studio sono stati
presi in
considerazione anche i titoli
minerari esistenti,
dalle coltivazioni
di idrocarburi agli
stoccaggi di metano,
e ne sono emerse le
zone idonee
e quelle escluse, che
corrispondono ai
progetti di
stoccaggio metano già esistenti:
l’area di Sergnano,
Ripalta Cremasca,
Settala. Idonea e in
fase di ulteriore
ricerca è stata
ritenuta la zona
del lodigiano.
Lo studio si è spinto
anche a simulare
tre possibili
iniezioni, utili a
capire l’idoneità del
sito e la possibile
tenuta della roccia
di copertura. Le
simulazioni hanno
eseguito iniezioni
di volumetrie pari a
300.000 t/anno
per un arco temporale
di trent’anni, e hanno concluso l’idoneità dell’area per lo sviluppo di
un impianto pilota
per lo stoccaggio di CO2, sia per
la possibile roccia
di copertura che ha uno spessore
variabile dai 500 ai
2.500 metri, sia per il possibile
giacimento che
avrebbe uno spessore da pochi metri
fino a 600.
Le simulazioni
effettuate sono in linea con il progetto
presentato dalla
Techint, che prevedeva la cattura
della CO2 presso la
centrale a ciclo combinato da
110 Mw presente nello
stabilimento siderurgico di
Dalmine (BG), e lo
stoccaggio in acquifero salino. È
interessante come
questo vecchio studio della Techint
prevedesse la
possibilità di stoccare una quantità pari
a 370/380 milioni di
tonnellate di CO2, dato fornito
attraverso un’analisi
statica precedentemente eseguita
e basata sulla
metodologia suggerita
dal Department of Energy (DOE) americano;
un volume che
equivarrebbe
alla quantità di
emissioni prodotte
dalle principali
aziende inquinatrici
della Lombardia in un
arco temporale
di trent’anni.
Perché
stoccare CO2 nel sottosuolo
La pratica del CCS è
studiata da diversi
anni, ma è ancora in
fase sperimentale.
Non si può nascondere
che
gli impianti
esistenti non hanno ancora
dimostrato
un’effettiva sicurezza,
tanto che il
dibattito scientifico è sismicità
indotta e innescata
(ne parleremo nel prossimo articolo),
la contaminazione
delle falde acquifere e la
possibile fuoriuscita
in atmosfera della CO2 da fughe
preferenziali, per la
cattiva tenuta delle rocce geologiche
di copertura – e le
emissioni, in grandi quantità
sono molto pericolose
perché asfissianti. Per questo
deve essere ricordato
il caso del lago vulcanico Nyos
in Camerun nel 1986,
con la morte nel sonno di 1.700
persone e 3.500 capi
di bestiame, proprio per l’emissione
dovuta a una
fuoriuscita naturale di CO2 disciolta
nelle acque.
Nonostante i rischi,
vogliono stoccare; perché?
La relazione finale
prodotta dalla Regione Lombardia
contiene alcune
risposte. Dichiara che l’attuale
stoccaggio CCS non è
attualmente redditizio e conveniente
se non attraverso
l’utilizzo combinato con altri
tipi di tecnologie.
Viene per esempio proposta la combinazione
con l’estrazione di
idrocarburi, la tecnica
denominata CO2 EOR (Carbon dioxide Enhanced oil
recovery, Recupero
assistito di greggio tramite l’iniezione
di CO2) (figura 2,
pag. 31). In pratica, spingendo
la CO2 nei giacimenti
si possono estrarre quantità
non trascurabili di
idrocarburi, che con il metodo tradizionale
non sarebbe
possibile; di fatto, si vuole raschiare
il fondo del
‘barile’.
Oppure si propone
l’utilizzo della CO2 come cushion
gas
negli stoccaggi di metano. Il cushion gas è
quella quantità di
metano utilizzato e non movimentato
commercialmente
necessario per la movimentazione
del gas stoccato e
commercializzato (working
gas);
in pratica serve per dare la pressione necessaria
per l’estrazione e l’iniezione.
Sostituendo il cushion
gas con la CO2 si
potrebbero recuperare quantità notevoli
di metano da vendere,
con un bel profitto per le
aziende di
stoccaggio.
Un’altra tecnica
ipotizzata è la Enhanced Coal Bed
Methane (Recupero di
metano da strati carboniferi),
che consiste
nell’iniettare CO2 negli strati geologici
carboniferi, in modo
da liberare il metano presente
negli interstizi
delle rocce carbonatiche. È un metodo
molto invasivo e
tipico delle operazioni da fracking;
proposto per il
bacino carbonifero del
Sulcis in Sardegna,
non è da escludere
il suo utilizzo in
determinati bacini
geologici
carboniferi, come quello della
Malossa in Lombardia
– bacino su
cui si basa il
progetto della Regione
– e in altre aree
lombarde, come Lacchiarella
e Zibido San Giacomo
nel
sud milanese, dove
sono in corso trivellazioni
per la ricerca di
idrocarburi
proprio in
conformazioni carbonatiche
a 4.000 metri di
profondità.
Il progetto lombardo
di CCS, in
riferimento allo
stoccaggio CO2 associato
a tecniche EOR,
riporta: “[...]
si stima che durante
gli ultimi 40 anni
siano state iniettate
nel sottosuolo
circa 1 milione di
tonnellate di CO2
con lo scopo di
migliorare il recupero
di olio greggio dai
giacimenti (recupero
migliorato del petrolio
tramite
iniezione di CO2, CO2
EOR). Alla
luce di questo dato,
la tecnica CO2
Eor è sempre più
considerata una tecnica
per progredire nello
sviluppo di
grandi progetti di
stoccaggio della
CO2, visti i vantaggi
commerciali rispetto
alle tecniche CCS tradizionali
e dedicate al solo
stoccaggio della medesima
[...] la maggior
parte delle
compagnie petrolifere
che sviluppano
e gestiscono tali
progetti non hanno
mai avuto come
obiettivo l’aumento
della capacità di
stoccaggio CO2 che
offrono i loro
progetti, poiché oggi
non vi è una spinta
normativa o finanziaria
che consideri la
componente
stoccaggio come parte
integrante e
remunerativa
dell’attività”.
È chiaro il tentativo
di inserire fin
da subito possibili
incentivi finanziari
e normativi. Continua
infatti il do-
cumento: “[...] al
fine di rendere l’attività di stoccaggio
una parte industriale
e remunerativa dell’attività
CO2 EOR, pare quindi
necessario implementare forme
di incentivazione
(prezzi, tassazione, normativa
ecc..). [...] al
momento, le attività CO2 EOR giocano
(e giocheranno sempre
più) un ruolo fondamentale
nel campo delle
tecniche CCS applicate a scala commerciale,
che spesso
giustificano un parziale bilancio
dei costi per lo
sviluppo degli impianti di cattura.
Ciononostante, è
necessario sviluppare uno scenario
gestionale affidabile
(anche politico e di accettabilità
sociale), relativo a
norme legislative, di controllo e
sicurezza, che
fornisca incentivi a investire nelle tecniche
CCS includendo anche
un necessario sviluppo
di siti dedicati al
solo stoccaggio di
CO2. [...] Infatti, i
soli giacimenti in
via di esaurimento
(sia di greggio, sia
di gas naturale), non
possiedono la
capacità di
stoccaggio necessaria a
poter contribuire
significativamente
all’abbattimento
delle emissioni di
CO2 a lungo termine
tramite l’applicazione
delle tecniche CCS
[...] La
potenzialità di
stoccaggio in giacimenti
di olio potrebbe
aumentare prendendo
in considerazione
parti del giacimento
di solito non
considerate negli
scenari di progetto
della CO2 EOR. Infatti, nelle zone basali del giacimento spesso è presente
una zona di
transizione tra acqua e olio (frangia
capillare,
caratterizzata da una saturazione in olio residua),
di solito valutata
non economica ai fini dell’EOR.
Questa parte del
giacimento potrebbe essere
riconsiderata ai fini
di aumentare la capacità di stoccaggio,
sia di un possibile
recupero addizionale di
greggio, in questo
momento non considerato economico
[...] inoltre, spesso
vi sono acquiferi salini posti
a fianco, sopra o
sotto le formazioni produttive a olio,
ma il loro utilizzo è
generalmente precluso a causa di
normative (proprietà
del sottosuolo) o dalla mancanza
di benefici
economici. Se, dopo attenta valutazione,
tali acquiferi
fossero ritenuti idonei per lo stoccaggio
‘dedicato’ della CO2,
essi potrebbero essere
utilizzati in modo
più conveniente degli stoccaggi ‘dedicati’
tradizionali, potendo
avvalersi a costo ridotto
delle infrastrutture
esistenti messe in opera per l’implementazione
del processo CO2
EOR”.
Quanto l’obiettivo
prefissato sia dietro spinta delle
lobby, è chiaro: si
andranno a creare incentivi e normative
idonee per queste
opere, compreso il rischio
concreto di una
privatizzazione del sottosuolo, dopodiché
ci si occuperà anche
di creare l’accettabilità sociale
nei confronti di
questi progetti.
Il
problema dell’accettabilità sociale
Un aspetto, quello
dell’accettabilità sociale, per nulla
da sottovalutare,
oggetto di progetti di ricerca appositi
e di seminari tenuti
negli stessi convegni per la promozione
degli stoccaggi di CO2.
È il caso del convegno
“Next Generation Energy storage Technologies:
challenges and opportunities”, tenuto a Taormina il 2-
3 dicembre 2015 e
organizzato da Science and Technology
Foresight Project del
CNR italiano (Centro
nazionale della
ricerca); e del progetto di ricerca “Public
Acceptance e attività
di supporto alla regolamentazione
delle attività di
sequestro geologico della
CO2” del Cesi
Ricerca, del febbraio 2008.
Il Cesi Ricerca, ora
Ricerca sul Sistema Energetico
s.p.a., è controllato
dal Gestore dei servizi energetici
GSE s.pa. – guarda
caso l’azienda che gestisce lo
scambio di quote di
emissioni italiane
– oltre a essere una
società
per azioni
controllata al 100% dal
Ministero
dell’economia e delle finanze.
In questo progetto è
spiegato quanto
siano fondamentali
gli stakeholder
(dalle autorità
locali e regionali a istituzioni
governative operanti
nel settore
energetico,
ambientale, sociale,
dell’istruzione,
sanitario; dalle industrie
coinvolte nell’ambito
della CCS
alle associazioni
ambientalistiche e
gli istituti di
ricerca) per pubblicizzare
la pratica di CCS, e
quanto essi
debbano essere
rappresentativi delle
diverse posizioni
esistenti riguardo
allo stoccaggio di
CO2. L’accettabilità
sociale, infatti, è
sottolineato nel
documento, si può
ottenere solo se i
cittadini credono che
la tecnica CCS
sia una fase di
passaggio che porterà
all’adozione di
tecnologie alternative,
come le fonti
energetiche rinnovabili,
e non qualcosa che
alimenta
l’industria dei
combustibili fossili. E
quindi bisogna
operare su più fronti,
agire attraverso i
mezzi d’informazione
di massa come fare
interventi
mirati sul
territorio, adattando la propaganda
al target a cui di
volta in
volta ci si rivolge.
Di basilare importanza
è il settore
scolastico, dalla
scuola primaria
all’università, che deve
essere oggetto di un
ben costruito
programma
d’educazione ambientale,
strutturato
attraverso lezioni, incontri
e dibattiti, nei
quali la CSS
deve essere
presentata come una possibilità
per contrastare
l’effetto serra,
perché mostrarne solo
la bilancia rischi/benefici,
evidenzia il documento,
potrebbe risultare fuorviante se non controproducente.
evidenzia il documento,
potrebbe risultare fuorviante se non controproducente.
Siamo quindi davanti
a un’operazione di propaganda
ben programmata, per
manipolare l’opinione
pubblica e fare
accettare la pratica CSS. Occorre dunque
riconsiderare tutti i
progetti energetici sotto una
nuova luce, e la
questione del cambiamento climatico
e dello stoccaggio di
CO2 ne sono al centro. La battaglia
contro la
privatizzazione del sottosuolo e per la
sua difesa come bene
comune è necessaria e fondamentale
fin da subito.
Fonte: Inchiesta Paginauno di Enrico Duranti
Commenti
Posta un commento